Vedere un mondo in un granello di sabbia
e un paradiso in un fiore di campo
tenere l’infinito nel palmo della mano
e l’eternità in un’ora
William Blake
Ogni immagine, anche la più semplice, nasconde un enigma. E il più grande degli enigmi è quello nascosto nella più semplice delle immagini, quella riflessa da uno specchio: nel dipinto che Karen Thomas dedica a questo tema antichissimo e sempre nuovo è forse nascosta una chiave per avvicinarsi alla sua pittura. C’è una figura di spalle e davanti a lei la sua immagine riflessa, alle spalle dell’immagine riflessa un dipinto appena cominciato. Lo specchio ideale nel quale l’artista si riflette è la pittura stessa, ciò che spinge a dipingere è un desiderio narcisistico di vedere meglio dentro noi stessi, ciò che noi possiamo conoscere di chi dipinge è solo il riflesso di sé che ci offre nelle sue opere. Oltre i limiti virtuali della tela bianca c’è un universo indistinto, fatto di colori , di luci, di emozioni, di percezioni, che solo grazie alla pittura diventano immagine e acquistano una vita propria. Chi dipinge sa sempre di costruire un particolarissimo specchio, che non si limita a riflettere passivamente la realtà esterna e neppure soltanto la realtà interiore, ma può trasformarsi in una finestra, o in un varco attraverso il quale chi guarda un dipinto compie il suo personale viaggio. Ogni artista, anche quello più istintivo, sa bene che il suo compito non è solo quello di esprimersi, ma quello, ben più alto e difficile, di aprire agli altri uno spiraglio verso una nuova dimensione spirituale. È quello di cui parlava Kandinsky quando affermava che nel lavoro di un artista c’è una sorta di dovere morale: ”La vera opera d’arte nasce ‘dall’artista’ in modo misterioso, enigmatico, mistico. Staccandosi da lui assume una sua personalità, e diviene un soggetto indipendente con un suo respiro spirituale e una sua vita concreta. Diventa un soggetto dell’essere. Non è dunque un fenomeno casuale, una presenza anche spiritualmente indifferente, ma ha come ogni essere energie creative, attive. Vive, agisce e collabora alla creazione della vita spirituale”.
La tradizione dell’Espressionismo
Se ho riportato un brano de
Lo spirituale nell’arte come inizio del discorso su Karen Thomas è perché credo che le radici più solide del suo lavoro siano da ricercarsi nella tradizione, etica oltre che estetica, dell’Espressionismo.
Nella cultura europea del nostro secolo, l’Espressionismo rappresenta, meglio di qualsiasi altro movimento artistico, la necessità di ritrovare la purezza originaria di fronte alla realtà e a se stessi.
Il sogno di poter dipingere e scolpire partendo dall’interiorità dell’emozione, costruendo con forme e colori il più autentico linguaggio dell’anima, autentico e puro come quello della musica, ha modificato profondamente la genesi stessa dell’arte, liberandola per sempre dall’obbligo della rappresentazione, e recuperando l’idea stessa di rappresentazione su un piano definitivamente non-mimetico.
Karen Thomas ha della pittura espressionista una conoscenza reale, maturata attraverso profondi studi di storia dell’arte e anni di attività, come insegnante, nei musei europei e americani. Echi della pittura da lei amata e compresa si avvertono continuamente nei suoi dipinti: gli equilibrismi cromatici del primo Kandinsky e di Emil Nolde, il senso della materia di Munch, la accorta disgregazione dell’immagine di Kokoschka, il gioco delle dissonanze di Permeke, anche una certa vena simbolica, non troppo dichiarata ma costante nell’ideazione e nell’avvio delle opere. Questi riferimenti, tuttavia, non hanno mai il sapore un po’ triste della citazione, fanno parte di una crescita e di una maturazione personale, che si rivela fortemente selettiva. A formare il suo linguaggio pittorico contribuisce, a ben guardare, solo il versante più “lirico” e interiorizzato della tradizione espressionista, accogliendo semmai la libertà inventiva di Chagall, ma non le motivazioni sociali e politiche dell’espressionismo tedesco e neppure la cruda osservazione della realtà della “nuova oggettività”.
La vocazione neo-espressionista di Karen Thomas nasce nella Germania degli anni Sessanta, da un contatto diretto con studiosi e artisti che erano stati nella loro giovinezza in diretto contatto con i maestri della prima generazione, ma ben più difficile è stabilire un contatto, che non sia di assonanza e di sintonia ideale, con i pittori del vasto e articolato fronte neo-espressionista del dopoguerra e degli ultimi decenni. Da questo punto di vista non bisogna neppure dimenticare che almeno dal 1990 l’artista vive e lavora in Italia, e la sua cultura figurativa può dunque trovare interessanti riscontri con esperienze parallele, soprattutto nel campo della “nuova figurazione”. La sua sensibilità per il paesaggio intensamente e liricamente vissuto la porta a volte a esiti non lontani da quelli di Attardi, mentre la carica emotiva del colore fa pensare a tratti all’ultimo Schifano.
Alcuni temi
La Thomas concentra la sua attenzione su pochi temi - paesaggi, volti, fiori - dove può concentrarsi sull’autonomia dei suoi mezzi espressivi e inseguire, come i suoi maestri ideali, il sogno di una originaria purezza di sguardo, lontana dall’ideologia, dal mito e da qualsiasi tentazione letteraria. Ed è un cammino difficile per chi, come lei, arriva alla pittura anche attraverso una ampia cultura letteraria e figurativa. La via seguita in questo percorso di liberazione è quella di un progressivo trasferimento delle immagini simbolo sul piano della pura espressione pittorica. Prendiamo ad esempio un soggetto-simbolo tra i più amati da Karen, la Nike di Samotracia. La statua ellenistica viene assunta nel mondo figurativo dell’artista come emblema della vitalità femminile: è dotata di ali, dunque in grado di mettere in comunicazione la terra e il cielo, ed è priva di testa, ovvero interamente concentrata sulle sue componenti emotive. Ora questa simbologia non è implicita, ovviamente , nella scultura, e a ben guardare può essere anche ignorata da chi guarda i dipinti , dal momento che il potere di comunicazione dell’immagine deve essere totalmente risolto nella sua evidenza pittorica e l’energia simbolica diventare energia del colore.
Altro tema ricorrente: la coppia, a volte in dialogo con una terza presenza , più o meno dichiarata o misteriosa. Anche in questo caso il substrato simbolico è perfettamente consapevole, l’unione degli opposti come raggiungimento di una armonia superiore, ma la soluzione del tema è pienamente pittorica, e può attuarsi attraverso la trasparenza delle figure oppure nella loro integrazione cromatica con il paesaggio. La
coniunctio oppositorum, maschile e femminile, luce e ombra, caldo e freddo, non è presentata attraverso le immagini, ma fatta accadere nella sostanza della pittura, nel suo farsi materia.
Su questa via Karen Thomas arriva ad utilizzare in tutta la loro portata espressiva gli elementi portanti dell’immagine pittorica, le forme e i colori: la sagoma di una figura ripresa di schiena può essere più significativa del suo volto, se lo stato d’animo che si intende rappresentare è l’attesa. Nel dipinto con il colonnato berniniano di San Pietro non è importante la somiglianza con il luogo, ma il rapporto che le figure stabiliscono con le grandi colonne, posandosi tra di esse, mi spiega Karen “come foglie sul cammino”. Su questa via si arriva all’
Ultima cena, dove sparisce qualsiasi riferimento a luoghi e oggetti dell’iconografia tradizionale, e l’intera trama emozionale del dipinto è affidata alle posizioni e alle relazioni tra forme corporee trasfigurate.
Paesaggi dell’anima
Gran parte del lavoro di Karen Thomas è dedicato al paesaggio. I titoli dei suoi dipinti ci parlano di luoghi lontani e vicini, Roma e l’Italia, la Grecia, la California.... Come, prima di lei, tanti pittori provenienti dalla Germania, Karen sviluppa una autentica e sincera cultura del viaggio, nella sua duplice valenza di scoperta dell’universo e di scoperta di sé stessi. Che questi due aspetti siano inestricabili nella pittura e ancor prima nella visione della realtà è un fatto certo, portato alla luce della coscienza contemporanea da tante riflessioni di viaggiatori-artisti, fin dai tempi della grande rivoluzione romantica. Caspar David Friedrich, uno dei maggiori paesaggisti di ogni tempo diceva “il pittore non deve soltanto dipingere ciò che ha davanti a sé, ma anche ciò che vede in sé. Se però in sé non vede nulla, tralasci pure di dipingere ciò che vede davanti a sé”. La comunicazione e l’interferenza tra il mondo esterno e il mondo interiore possono seguire molte strade. Ogni luogo, ogni città, ogni strada ha un’anima, una particolare energia che sprigiona dalle sue forme e dai suoi colori, dalla sua storia, dalla gente e dai suoni, e viaggiare significa andare in cerca di quell’anima, che saprà accendere l’immaginazione e indurci a penetrare enigmi più profondi, guidarci verso l’esplorazione di un mondo in cui le connessioni topografiche, i riscontri con le cose viste possono diventare molto labili. Parlandomi del suo rapporto con il paesaggio, Karen mi ricorda una frase di Novalis: “ Dove andiamo?... sempre a casa”, come a dire che ogni viaggio è la scoperta di qualcosa che è nascosto dentro di noi, e anche che conoscere in fondo è ricordare.
In
Sognando Castel S. Angelo la Thomas riprende una delle più classiche inquadrature del vedutismo romano: il Ponte degli Angeli, la Mole Adriana, la Cupola di San Pietro. Una immagine talmente ovvia da costituire una sfida per qualsiasi pittore, eppure ecco che la cupola si dilata, assumendo una curvatura che non è più michelangiolesca e romana, ma bizantina e orientale. Gli impasti cromatici sospesi in una atmosfera luminosa e vibrante evocano anch’essi tonalità da mosaico. L’angelo in cima al castello sembra pronto a spiccare il volo. È forse lo stesso angelo di un altro dipinto? Blu su blu, con le grandi ali aperte ci volge le spalle e ha davanti a sé quello spazio sconfinato che solo l’immaginazione ci può regalare.
In
Puglia, nell’ora del silenzio ci mostra due persone sulle scale, di fronte a una soglia in piena ombra. La scala e la porta, due simboli spesso collegati tra loro nell’immaginario degli artisti, da Canova in poi. La scala è la vita e anche il cammino della conoscenza, la soglia può essere la morte, ma anche l’ignoto. L’ora meridiana è essa stessa portatrice di mistero. È l’ora “in cui i dèmoni scelgono di rivelarsi” come racconta Roberto Cotroneo nel suo bellissimo romanzo
Otranto. Anche in quel caso la trama metafisica del racconto conduce l’eroina, una restauratrice proveniente dalle nebbie del nord, a contatto con i misteri del mosaico della cattedrale e con quelli della sua infanzia, e i suoi incontri con i fantasmi avvengono in quell’ora magica in cui la troppa luce spinge a cercare il buio e “la volontà di vivere si ritira, assorbita dall’indifferenza come acqua dalla sabbia”.
Torna spesso, nei paesaggi della Thomas, soprattutto in quelli italiani, il motivo delle figure che camminano nel paesaggio, lungo una strada o un sentiero che si inoltra tra le sagome dei pini e dei cipressi. Più che un espediente narrativo si tratta di un invito alla contemplazione e al viaggio, a un certo modo di rapportarsi con la natura che sviluppa il tema delle “affinità elettive” e ci parla di un’Europa a dimensione d’uomo, lentamente modellata dalla mano e dagli occhi fino a far corrispondere ritmi ed esigenze interioril’amore, la malinconia, il desiderio d’infinito- a luoghi ben definiti
Paesaggio sulla via Appia e
Magia di Roma sono giocati sulla suggestione emotiva del colore, eppure anche nel contrasto violento dei toni complementari, rosa e verde veronese, amaranto e smeraldo, l’immagine ritrova una sua compostezza classica, un equilibrio dettato dal bilanciarsi dei pesi e delle masse nello spazio, così come dal gioco di toni caldi e freddi.
Ben diversa è la dimensione emotiva suggerita dai paesaggi californiani. Qui l’occhio non trova appigli nella corsa infinita dei lunghi viali di palme, le ombre puntano lunghe dita verso spazi deserti e indecifrabili, in cui il colore si distende in strisciate liquide e sfuggenti. Anche i toni del cielo sembrano soffrire per il troppo spazio , e sentiamo subito che la solitudine di questi luoghi è lo specchio di una condizione esistenziale, di una mancanza di storia che rende più crudi i contrasti, più incerta e labile la presenza dell’uomo, nonostante la sua smania di ordine, le strade diritte, la prospettiva e i cartelli stradali. È un mondo che trova la sua identità quando anche i segni dell’uomo, le città fantastiche e le luci elettriche, sembrano voler partecipare allo spettacolo della natura, come avviene in
San Francisco Bay, memoria “a volo d’uccello” di uno dei luoghi più belli del pianeta. L’esplosione di colori di questo dipinto sembra nuovamente partecipare a quella scoperta romantica del paesaggio che trasformava il contatto con la natura in una esperienza mistica, e la visione di un tramonto in un meraviglioso presentimento.
L’avventura del colore
Tutta la cultura figurativa dell’Espressionismo, e prima ancora la cultura romantica, è ossessionata dal significato spirituale e metafisico del colore. Per Goethe, che risale nelle sue riflessioni fino a Plotino, solo la rifrazione della luce nel colore può rendere visibile la natura nei suoi occulti rapporti interiori. Nel mondo che ha ricevuto i colori, scrive Runge, “ogni forma ti affratella nel significato, piccola o grande che sia è misteriosamente abitata dal medesimo struggente anelito e cerca di trovare il principio da cui scaturisce ogni diversità”. Eppure quello stesso colore che appare come suprema manifestazione della luce, come segno della riconciliazione tra l’uomo e Dio (l’Ade dei Greci era ater, senza luce), può anche apparire come skia, ombra, o meglio mescolanza della luce pura con l’oscurità della materia. Ne
Lo sguardo, Karen Thomas sembra rivivere questo inquietante dualismo: la superficie del dipinto è quasi interamente giocata su tre grandi campiture affidate ai colori primari, blu, giallo e rosso, che con i loro differenti valori accentuano il senso di rotazione del volto. Pensiamo di poter finalmente vedere in faccia una di quelle figure che abbiamo inseguito per tanti dipinti, e invece lo sguardo che ci si propone è intriso di una luce oscura, anzi sembra assorbire la luce.provocata dagli altri colori. Il blu intenso delle iridi si ritrae oltre la superficie del quadro, come a voler mantenere un segreto. E allora anche quei colori “solari”, che potrebbero invogliarci a credere in una pittura estroversa, vissuta come gioiosa adesione alla realtà, si rivelano come uno schermo posto tra noi e quello sguardo lontano.
Ritorna, sotto la forma pittorica dell’autoritratto, la metafora dello specchio dalla quale siamo partiti, e ancora una volta ci invita a non fidarci delle apparenze, se possibile ad andare oltre la superficie. Per capire che la pittura è sempre un po’ gelosa dei propri significati e mentre ama lasciarsi guardare e anche descrivere, conserva sempre un margine oscuro, dal quale inizia la vera avventura dei colori.
Valerio Rivosecchi